L’Istat (Istituto Nazionale di Statistica) ha calcolato il nuovo coefficiente di rivalutazione relativo al trattamento di fine rapporto, meglio noto con la sigla Tfr: quest’ultimo ammontava a maggio a 1,778846. In aggiunta, non bisogna dimenticare a quanto ammonta l’indice dei prezzi al consumo, il tasso di inflazione per intenderci, ormai giunto a quota 105,6 se si escludono dal conteggio i prezzi dei tabacchi lavorati, una delle componenti che di solito viene invece considerata. Perché sono utili tutte queste informazioni? La risposta è presto detta. In effetti, coefficiente di rivalutazione e inflazione permettono di calcolare in maniera precisa e accurata il dato del Tfr, il quale è stato introdotto per la prima volta nel 1982, da un’apposita legge, la numero 297 (“Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica”).
Il calcolo in questione, inoltre, viene fornito ogni singolo mese, in modo che i soggetti interessati abbiano la possibilità di rivalutare in modo appropriato tutte quelle somme che sono state accantonate al 31 dicembre dell’anno precedente (in questo caso si guarda ovviamente al 2011), quando si devono regolare delle cessazioni di rapporti di lavoro, ma anche i conteggi relativi ai bilanci infrannuali. Come è stato stabilito dall’articolo 2120 del nostro codice civile, inoltre, il Tfr che è accantonato alla fine di ogni singolo anno ha l’obbligo di essere rivalutato, avvalendosi di due elementi ben precisi.
Per chiunque abbia intenzione di costruirsi una pensione integrativa, la soluzione suggerita dal nostro governo è quella di dar vita a una pensione complementare, investendo appunto il Tfr. La speranza che si nutre, quindi, è che nel lunghissimo termine questo investimento possa garantire molto di più rispetto a quanto riesce a fare la rivalutazione annua del trattamento che viene lasciato in azienda. La liquidazione ottenuta investendo in questa maniera rimane comunque un punto interrogativo, visto che i dati a disposizione spesso non sono sufficienti.