Il salvataggio dell’industria automobilistica degli Stati Uniti, costato 85 miliardi di dollari di fondi pubblici e decine di migliaia di licenziamenti, ha scosso il paese, ma i produttori hanno recuperato la loro competitività.
Alla fine del 2008, le “Big Three” di Detroit, General Motors, Ford e Chrysler, si sono trovate in ginocchio, schiacciate dal peso dei debiti e dalla concorrenza, soprattutto asiatica, in ritardo sul fondamentale passaggio ad auto più economiche e di qualità, e vittima dell’impennata dei prezzi del carburante.Le vendite di auto negli Stati Uniti sono precipitate da circa 17 milioni all’anno nel 2005, portandosi a 10,5 milioni solamente nel 2009. Nonostante i tagli di posti lavoro e la chiusura di stabilimenti, nell’autunno del 2008, GM e Chrysler si sono trovati a corto di liquidità e con perdite vertiginose: 31 miliardi di dollari per GM.
A poco sono serviti i miliardi di dollari iniettati durante l’amministrazione Bush: all’inizio del 2009, nelle prime ore dell’era Obama, la situazione è peggiorata ulteriormente.
In condizioni normali avrebbe potuto esserci una ristrutturazione con capitali privati. Ma con la crisi finanziaria, e l’assenza di credito privato, non è stato possibile. Il rischio era il crollo di tutta l’industria automobilistica, che avrebbe minacciato diversi milioni di posti di lavoro in tutto il paese.
Dopo diverse settimane di trattative tese con aziende leader del settore, il presidente Barack Obama, appena insediato, ha dato il via libera al “più grande piano di sostegno all’industria dopo la Seconda Guerra Mondiale”, come è stato definito dall’ex consigliere Steve Rattner. I fondi sono stati attinti dai 700 miliardi di dollari del piano di salvataggio bancario.
Una delle condizioni sine qua non per l’intervento dello Stato, oltre ad una sostanziale diminuzione della retribuzione dei dipendenti, è stata l’abbandono del boss di GM Rick Wagoner, così come quello di Bob Nardelli di Chrysler. Per Chrysler e GM, ex gioielli dell’industria americana, accade poi l’inaspettato: nella primavera del 2009, entrambi presentano istanza di fallimento.
GM si trova de facto nazionalizzata, guadagnandosi il soprannome di ” Government Motors”. Gli importi del governo federale ammontano al 61% del capitale contro un aiuto di $ 60 miliardi e la cancellazione di una gran parte del debito.
In casa Chrysler, il governo si prende l’8% mentre il 20% passa nelle mani della casa automobilistica italiana Fiat, guidata da Sergio Marchionne. Per incrementare le vendite, l’amministrazione Obama introduce persino un sistema di rottamazione nell’estate del 2009.
Ford riesce a scampare al fallimento, ma solo perchè si trova senza denaro prima, quando ancora può fare ricorso ai mercati. Al suo arrivo alla testa del numero due americano, nel settembre 2006, Alan Mulally aveva scommesso pesantemente, negoziando un prestito di 23,6 miliardi dollari e mettendo a repentaglio tutte le attività del gruppo, compreso il famigerato logo, blu e argento.
I tre produttori americani hanno licenziato decine di migliaia di persone (GM impiega oggi 200.000 persone contro i 327.000 dipendenti nel 2006), chiuso più di una dozzina di stabilimenti negli Stati Uniti, ed eliminato molti marchi: Mercury , Taurus, Hummer, Saturn …
Hanno puntato sull’automatizzazione e investito in innovativi sistemi elettronici a bordo dei nuovi modelli auto e nelle tecnologie “verdi”, focalizzato sull’internazionalizzazione (GM e Ford hanno iniziato ad aggredire il mercato cinese) e sono tornati alla redditività. Ma il loro tallone d’Achille è oggi l’ Europa, mercato in cui si accumulano le maggiori perdite.