La Fed si avvicina all’annuncio di una svolta per certi versi clamorosa, ma ampiamente preparata dal mercato: il rialzo dei tassi che manca da ben 9 anni, mentre è dal 16 dicembre 2008 che il costo del denaro americano è al livello minimo.
Una svolta che non si attende da settimane, ma da mesi. Già a giugno, infatti, i mercati davano più del 70% di possibilità a un intervento della Banca centrale Usa sul costo del denaro. Si pensava che la prima finestra valida fosse il rientro dall’estate, ma la crisi dei mercati finanziari cinesi ha complicato i piani di Janet Yellen, il presidente della Fed. Poi la crescita Usa ha mostrato di resistere agli choc esterni dati dal rallentamento di Pechino e dei mercati emergenti, convincendo via via i mercati che entro la fine dell’anno da Washington sarebbe arrivato il segnale.
A differenza di quanto accade in condizioni ‘normali’, la politica monetaria non interviene questa volta per combattere le pressioni dell’inflazione. E’ buona norma per il governatore, infatti, agire sui tassi quando vuole calmare un’economia troppo esuberante, che rischia di dar luogo a una corsa dei prezzi inarrestabile. In questa circostanza, dicono invece gli esperti del Crédit Suisse, sono due i razionali che muovono Janet Yellen: limitare la possibile esplosione di bolle nell’immobiliare o sui mercati; e crearsi un cuscinetto per poter in futuro agire con la politica dei tassi, nel caso di un rallentamento economico. Se la crescita cambiasse verso, infatti, oggi la Fed non avrebbe margini d’azione: si deve allontanare dalla fascia dei ‘tassi zero’ che caratterizza ormai la politica della Fed dal lontano 2008 (per ironia della sorte, raggiunta sotto Ben Bernanke proprio il 16 dicembre). C’è anche qualche timore che questa mossa possa portare a una effettiva recessione, ma secondo gli economisti non è ancora il caso di preoccuparsi per l’ingresso in una fase calante dei mercati.